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1989-2002


Pope, Cecchini, Gaul, Patelli, Rajlich

di Diego Collovini

tratto dal catalogo della mostra presso la Galleria d'arte Moderna Comunale, Portogruaro.


I quadri richiedono molta luce e lunghe meditazioni contemplative. Essi non sono frutto di calcoli, ma escludono qualsiasi casualità
U. Urben

L'attuale panorama artistico, nella sua vasta dimensione e nella sua più articolata capacità di raccogliere i più ampi e flessibili linguaggi, ci permette variegate riflessioni sui diversi generi artistici. Tali considerazioni sono spesso avvalorate dalla progressiva articolazione dalle innumerevoli possibilità che la contaminazione dei linguaggi dell'arte permette. Si vengono così ad operare e confermare delle scelte linguistiche, ma anche produrre nuove espressività. Sarebbe riduttivo dunque se limitassimo le nostre analisi al solo sistema artistico attualmente predominante, poiché la trasformazione linguistica dell'arte non segue, per fortuna, gli schemi della comunicazione, pura e semplice, ma dipendono da quelli caratterizzanti la progressiva e temporale evoluzione, che ogni sistema artistico riesce a conservare all'interno di se stesso. Gli appuntamenti cui partecipiamo ciclicamente e che fanno, per così dire, tendenza, non sono altro che opportune riflessioni sui linguaggi che mantengono costante e vivo il rapporto con la contemporaneità. Ciò che va invece salvaguardato è quel sistema filologico che permette di scomporre i diversi aspetti della comunicazione e di renderli autonomi, comunque tali da oggettivare, nel prodotto artistico, la creatività individuale. Questo modo di "leggere" l'arte dà libertà, non solo all'artista, ma anche allo spettatore, di affrontare lo stesso sistema dell'arte considerandolo non disgiunto da quello che potemmo definire "ciclicità espressiva". Spesso tale ciclicità, proprio per quel suo ripetersi, porta ad ambiguità, poiché molte volte si è rivelata come un tentativo di settorializzare, se non chiudere in precise categorie, i linguaggi espressivi della pittura, limitando, attraverso definizioni o mere ripetizioni linguistiche - se non addirittura processi di revisioni - ogni sviluppo creativo in evoluzione.

Accanto alle eccentricità espressive temporali, alle stravaganze artistiche di questi ultimi anni, o ancora alle pure tendenze provenienti da culture diverse, si può assaporare il "silenzio del fare". Ci si può addentrare in un processo espressivo in costante evoluzione e che trova ragione di essere in quel silenzioso atto di ripensare, attraverso l'azione del "fare", le componenti linguistiche proprie e specifiche della pittura. Per queste ragioni, che per altro non mi sembrano di poco conto, ritengo che oggi, più che in ogni altro periodo (soprattutto se consideriamo che le ciclicità delle forme espressive spesso sono determinate da un processo di saturazione dei linguaggi stessi) l'atmosfera del mondo dell'arte risenta di pause di riflessione e di ripensamento. Il processo di "specializzazione" dei linguaggi fa sì che ogni processo di verifica della validità dei linguaggi si indirizzi dapprima verso quelle attività artistiche predominanti, e poi verso quelle che a queste fanno da corollario.

Accanto ai linguaggi dell'arte "in atto", da sempre, si mantiene in uno stato di evoluzione e di ripensamento la pittura; un cammino in costante stato di ri-definizione, ma non in contrapposizione ai linguaggi che determinano le varie espressività dell'arte contemporanea. Questo certamente ci fa ritenere che la pittura non sia la forma privilegiata del mondo dell'arte, ma certamente ci porta a considerarla come il percorso autonomo seppur parallelo all'ampia storia dell'arte. È la forma espressiva più antica senza dubbio, forse la più illusoria, certo quella che ha il cammino più articolato e anche il più ricco di momenti razionali, come dei suoi contrari, fatti di passionalità ed emotività, come del resto di azioni progettuali aprioristiche, contemporaneamente a materializzazioni artistiche in itinere.

La presente esposizione non ha alcuna intenzione di riesumare vecchie esperienze della pittura degli anni settanta né tanto meno si ritiene di dover ricercare un primato che, se mai fosse esistito, può essere solamente espressione del lavoro di uno storico. Ciò che si vuol raccogliere dall'esperienza di questi artisti, che per altro rappresentano non solo un ampio spettro storico-artistico ma anche geografico, è quel silenzio del fare, che appartiene alla pittura. Questa ricerca vuole articolarsi dunque sulla validità di un sistema linguistico capace di raccogliere e materializzare l'intuizione dell'arte.

La pittura, di cui cerchiamo di dare una dimensione attraverso l'opera di Vincenzo Cecchini, Winfred Gaul, Paolo Patelli, Pope, Tomas Rajlich e Claude Viallat, rappresenta per certi versi uno percorso a se stante, ma non estraneo al cammino storico della pittura astratta. Queste autonome esperienze pittoriche si possono interpretare seguendo la duplice anima del fare pittura. Se da un lato essa è contraddistinta da un momento teorico, frutto di una progettualità o di un lavoro mentale, dall'altro, nella fase realizzativa, emerge prepotentemente l'aspetto pratico-sperimentale, quell'esercizio della pittura, che pone in discussione i suoi materiali e lo stesso procedimento del dipingere e del fare materialmente pittura.

Di fronte ad una logica di questo tipo conviene non considerare dunque la pittura come un puro fare i cui contorni, pur non essendo ben definiti, sono spesso mutevoli. Infatti, se da un lato se ne avvantaggia l'aspetto progettuale e razionale, si corre il rischio di sconfinare nel linguaggio "concettuale", che come tale nega l'oggettività del fare; se d'altro canto ne privilegiamo il solo aspetto del fare senza un substrato teorico, diventa un puro esercizio di affinamento del linguaggio pittorico. Si vuol qui osservare una pittura fuori da ogni modello precostituito (alludo alle etichette che spesso e impropriamente sono state date ai momenti della pittura), ma come un continuo "atto sperimentale", come un processo creativo che si concretizza nel divenire; quel momento in cui si attua la consapevolezza dell'autonomia del fare, che si manifesta nella scoperta improvvisa della fine dell'atto pittorico, quando nulla manca sulla superficie (a qualcuno può, a tal proposito, tornare in mente l'Unfinished Painting di Robert Ryman del 1965).

Questo continuo rinnovamento del fare non fa che mantenere l'atto pittorico all'interno di una fase pratica che è propria del processo di adeguamento all'attualità degli strumenti, dei materiali, delle nuove tecniche, a tutto ciò che appartiene alla mutevolezza della creatività dell'arte contemporanea. Questo naturalmente ci impone di considerare la pittura non come espressione di uno stile o di un linguaggio già codificato o solamente come frutto di passate esperienze, ma, al contrario, ci permette di osservare come il linguaggio della pittura sia mutato, attraverso un progressivo ripensamento dei propri elementi espressivi. Parlare dunque di colore, luce, superficie, gesto, movimento, cromatismo, velatura, spazio ecc, significa certamente addentrarci nella tradizione vera e propria della pittura, ma anche considerare il cambiamento dello "specifico" della pittura stessa. Gli elementi linguistici sopraelencati non si possono quindi relegare ad un solo tempo, ad un luogo determinato della pittura, ma vanno intesi come elementi sintattici della pittura fuori di un tempo proprio, nella loro volubilità. Tutto ciò dipende dunque dal generale percorso della storia dell'arte, ma soprattutto dall'artista, dal singolo, da quella sua capacità di vedere e di fare. Una pittura dunque fuori dalle regole che condizionano il singolo lavoro, ma anche fuori da assiomi, da storici simbolismi e da bizantinismi letterali.

Rigorosa è la tensione pittorica che si può raccogliere nelle opere di Vincenzo Cecchini. La sua pittura si manifesta come una lirica composizione, quasi monocromatica, nel singolo campo sulla superficie. La trasparenza mette in risalto il piano bidimensionale, sul quale va a definirsi il colore, che assume così un solido carattere materiale, fino a diventare un corpo unico con la superficie. L'artista ottiene così una giusta densità materica, in grado di farsi corpo unico con il piano pittorico e proporre una gradazione infinita degli strati colorati, dando così uno spessore al colore. La luce dunque si manifesta creando variegate vibrazioni che caratterizzano la pittura dell'artista. La superficie si propone in sintesi come un palcoscenico sul quale la luce recita il ruolo di protagonista. Con la sua possibilità di esprimersi attraverso azioni minimali, trasmuta e pone in dubbio la staticità della materia, quasi un uso fisico della luce, alla ricerca di riverberi e di imprecise identità proprio nel processo di dispersione della materia/colore.

La pittura di Winfred Gaul, come per altro ha affermato in un suo scritto, vive di uno stabile equilibrio tra momento mentale e quello sperimentale e appartiene ad un "concetto globale, determinato esclusivamente dalla portata emozionale e intellettuale". È una pittura che non può che essere la negazione della staticità. L'artista nel suo lavoro evidenzia un processo creativo in completa e costante evoluzione. Il fine della pittura è quello di sapersi coordinare, di far dialogare le componenti linguistiche con l'intento di "svelare l'energia degli elementi" (Cerritelli), per poi trasformali, fino ad farli uscire dalla loro dimensione originale. Oggetti della quotidianità (come le scatole) si trasformano in elementi della pittura; si trasformano e diventano superficie, una parte determinante del linguaggio pittorico. L'oggetto dunque "deve smettere di essere oggetto utile, trasformandosi di nuovo in pezzo di cartone che lascia libero spazio alla fantasia". Ed è su questa superficie che la forza espressiva e creatrice dell'artista alterna l'atto razionale proprio del pensiero con quello puramente sperimentale specifico del fare.

Paolo Patelli accentua notevolmente l'azione del fare, in quanto questa si propone come atto ultimo, conclusivo e di sintesi. Il fare pittura chiude un percorso articolato e complesso che origina fuori dal campo del linguaggio pittorico. Dapprima l'artista viene affascinato da oggetti di recupero, ne segue gli stimoli fino alla loro utilizzazione per la definizione dello spazio pittorico. Tutta l'azione progettuale segue l'origine dalle cose e la loro casualità materiale (ferro, legno ecc.), ne viene così evidenziata la consapevolezza della loro funzione nella costituzione della superficie, ma anche a proporsi come corollario all'opera stessa. La pittura è solamente il momento che sintetizza l'indagine e l'idea della composizione. Attraverso questi sviluppi si crea la consequenzialità tra la fase progettuale e l'azione materiale vera e propria. L'artista tende così a consolidare l'azione materiale e viva del dipingere, lasciando però evidente il dialogo tra le varie componenti; se da un lato l'utilizzo casuale dei materiali propone una testimonianza, una memoria, un passato, la pittura invece è espressione del presente, che si libera in una gestualità controllata, ma nello stesso tempo libera di percorrere lo spazio pittorico.

Le composizioni di Pope nascono nel costante, e a volte interminabile, confronto tutto interno alla ricerca sulla luce. Se da un lato vi è la brillantezza del colore, dall'altro la superficie è segnata dall'opacità della materia, questa dicotomia va profilandosi come un luogo originario da cui, come una scintilla, si diramano i movimenti del dipingere. Questo alternarsi dei punti luce determina il proseguo dell'azione pittorica dell'artista, il quale concentra il suo fare analizzando l'essenza del colore e lavorando sulla strutturazione formale. Questo appare sorretto dalla convinzione che ogni forma abbia un suo colore, e che un colore non possa originare che una forma. La materialità del colore dà sì origine ad un corpo cromatico, sul quale la luce segue percorsi articolati a diverse dimensioni, ma contemporaneamente crea altrettante sensazioni e mutevoli percezioni visive. La superficie si propone come un luogo sul quale la materia, per mezzo della trasparenza, della velatura o della sovrapposizione cromatica, determina i riverberi tonali della luce.

La superficie è l'elemento che meglio definisce e caratterizza l'azione pittorica di Rajlich. La sua ricerca si articola proprio sulla superficie, un luogo sul quale l'azione del dipingere trova il più ampio movimento. L'impianto pittorico appare segnato da due elementi: l'illusorietà del colore, con le sue false profondità e falsi piani percettivi, e la dinamicità del segno unita all'energia della pennellata. Quest'ultimo aspetto, quello più vivo e più vigoroso mette in luce la contraddizione tra la staticità, tutta relativa alla superficie mantenuta bidimensionale proprio dal bordo volutamente incompleto, e l'energia, la forza la capacità della mutevolezza del colore. Per Rajlich dunque la pittura è un'attività trasformatrice, tale da permettere all'uomo di erigersi a protagonista di un gioco dialettico mediante il quale il sapere, che nasce dal conoscere, e l'esperienza, che origina dal fare, definiscono una nuova modernità artistica che ha trovato la propria origine e il proprio percorso fuori da situazioni mistiche, simboliche, o ancora rappresentative.

La pittura di Claude Viallat, in seguito alle decostruzioni del periodo support/surface, ha operato un'analisi metodica e d'insieme degli elementi linguistici che costituiscono le sue opere. Ha proposto un dialogo fra la razionalità che caratterizza l'idea di modernità e la primitività del fare, al fine di frugare nella pittura e riconoscere a questa un suo stato di oggetto puro, lo stesso oggetto che si pone dinanzi allo sguardo dello spettatore. Le sue opere sono percorse da un cromatismo di stampo matissiano, che si rende immutabile anche in relazione ai diversi supporti bidimensionali. La forma, sempre uguale a se stessa, viene proiettata infinitamente nello spazio trovando nell'idea di "ripetitività" un fondamento estetico; una sorta concettualizzazione di una modularità compositiva e formale, in una dinamica espressiva, dove ogni componente linguistica vive di una sua identità oggettiva. L'opera in quanto tale, diventa espressione di un processo razionale autonomo, libero da identificazioni o da particolari significanze, che non siano quelle puramente fenomenologiche che ogni oggetto porta in se stesso.


Nel giorno di San Guglielmo di Montevergine
Diego collovini




 

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