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1975-1988


Pope, 1979

di Eugenio Miccini



Quello che affascina sempre e sempre contraddice nell'arte è la sua capacità di "menzogna", cioè la sua negazione della physis, il suo nascondersi sempre alle esperienze "naturali", il suo sottrarsi all'evidenza sensibile che costituisce la sua materia e i suoi accidenti. Anche quando si tratti di arte che produca le immagini degli “idoli" (nel senso epicureo: i "simulacra" di Lucrezio), come è stato fino agli inizi del nostro secolo - e che tuttora sussiste in molte esperienze diverse - essa è sempre "altro" ed "altrove" dalla realtà. Tuttavia l'arte, che appartiene alla competenza dei metalinguaggi storici piuttosto che a quelli naturali, può richiamare la nozione dell'identità, cioè la memoria di una replica più o meno differente di una pratica estetica già esperita e riproposta in maniera più o meno declinatoria.

Comunque, quanto più l'arte nella sua lunga vicenda storica si allontana dalle simulazioni e dai suoi pretesti, quanto più si riapprossima a se stessa, tanto più si arricchiscono e si confondono le capacità ermeneutiche, gli imbarazzi e gli arbitri interpretativi, insomma la libertà concessa al "lettore". L'arte, dunque, è sempre astratta, indipendentemente dall'accezione che designa quelle esperienze che vengono cosi classificate. Astratta perché, negando si ai suoi improbabili referenti, si legittima concettualmente come autovalore, fuori da ogni oggettività "esterna".

Gioia e travaglio, dunque, del lettore (dello scrittore, nel mio caso), di fronte ad opere, come queste di Pope, che non godono di certezze preventive se non quelle poche riferibili alla storia, cioè alla ricca fenomenologia dei fatti artistici del nostro tempo; opere che, invece, reclamano quella incertezza tutta metodica della sospensione del giudizio per affidarsi alla "logica" (quella che Aristotele chiamava “analitica"), ad un esame puntuale della loro struttura.

Pope ci si offre, quindi, assai compromesso e, al tempo stesso, cosi innocente. Compromesso nel cuore di tante sperimentazioni che lo annoverano tra i cultori di un'arte non-oggettiva che, abbandonate le suggestioni sospette e tutte "esterne" dei codici realistici, si offrono prive di illazioni di similarità, alla percezione come sistemi sintattici di morfologie e cronemi, come ripartizioni di spazi arbitrari, come allusioni prive di oggetto, come immagini di un piacere "diffidente", per usare un termine che Girolamo riferiva all'edonismo di Epicuro.

L'"innocenza" di Pope è, appunto, la sua scepsi storica che preferisce, come vorrei fare io, investigare le cose ab initio et ante saecula sottraendole all'agnizione filologica, guardandole in sé. Ma quali cose sono "degne" di quella "promozione ontologica" di cui parlava Nietzsche? Secondo Pope, le cose sono non già il mondo degli oggetti ma quello dei fatti, e il fare privo di un suo oggetto materiale richiama evidentemente il mondo dei concetti; per essere più precisi, secondo una glossa famosa di Wittgenstein a Carnap, il mondo non è un insieme di fatti ma di proposizioni. Come dire che la conoscenza del mondo è, dal punto di vista speculativo, un esercizio linguistico.

Per limitarmi ad alcune considerazioni sul lavoro di Pope, mi pare ineludibile, quindi, il carattere fondamentale di quell'esercizio: i segni e i sintagmi, il colore, la percezione e il senso.

Il segno è elementare: una striscia che si replica, con effetti di pieno e di vuoto, in successione continua. Le strisce alternano due toni dello stesso colore, dato, in alcuni polittici, come dominante. Anche la sintassi è assai semplice: la relazione dei segni tra di loro si scopre al primo impatto con l'opera e regola nello stesso modo della ripetizione anche i polittici.

La sola complicazione sintattica è data dall'obliquità delle strisce che ne gradua la lunghezza. La percezione che ne risulta è ovviamente instabile, soggetta ad una specie di inganno ottico che smentisce la regolarità del tracciato e che, per altro verso, è allusiva a qualcosa che si compie oltre il quadro: una figura, anzi una serie di figure che si iscrive nel quadro solo parzialmente e che mentalmente invita a seguitare quei segni, a costruire altri ipotetici piani.

Sicchè il rapporto tra le linee e il piano prende inevitabilmente il senso di una coppia dialettica: simmetria/asimmetria. Ma anche una virtuale duplicazione plastica del piano medesimo: le strisce più chiare appaiono più emergenti quanto più il colore germinale articola le sue scansioni, se non proprio le opposizioni, di tono. Più complesse risultano le strutture dei politti ci in cui due tele monocrome portano i due colori che nelle tele attigue si segmentano e si alternano.

E' nell'insieme un gioco combinatorio che ci offre, per cosi dire, anche la sua grammatica. Grammatica povera ma, ricche possibilità di articolazione e, come ho detto all'inizio, di interpretazione.

Tra le altre, quella già accennata delle simmetrie e dei suoi opposti: rispetto all'assetto del piano e alle legislazioni dell'umana percezione, queste fasce oblique costituiscono una trasgressione calcolata: un'insoddisfazione ottica e metrica che è, appunto, il contrario di una visione pacificata e di una raggiunta simmetria che, ad esempio, coincidono nel Buddismo Zen con la fine della vita umana che si perfeziona nell'assoluto (la divinità come simmetria e pacificazione dei conflitti).

Per concludere: la lunga "linea analitica" dell'arte moderna, giunta alle inquietanti proposizioni di Malevich e Duchamp e perfezionata dalle teorie escatologiche dei Kosuth e dei Reinhardt, hanno lasciato vivaddio aperta una strada alle vicissitudini del concettuale, ed è la strada che percorre Pope, quella indicata ad esempio dalla Minimal e dalla Nuova Pittura: è un atteggiamento e una pratica che indaga sui processi conoscitivi dell'arte nel momento stesso del fare arte, riunendo teoria e prassi nello stesso atto, senza indifferenze ultimative per la materia e la forma e riportando, attraverso il piacere del dipingere e l’impossibilità dell’astrazione, il pensiero lontano dal compiacimento per le proprie autoasserzioni.

Questa pratica materiale, svincolata da funzioni "seconde", si giustifica così come una lavorazione del mondo non alienata, come un gioco della conoscenza non solamente speculativa ma pratica per quella profezia di una società estetica che essa contiene.

Eugenio Miccini, 1979




 

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